I grandi non muoiono mai. Anzi: la morte fisica ne sublima la lezione facendocela apparire ancora più viva. Questa chissà quante volte l'avrete sentita, usata e abusata a proposito di tanti ma soprattutto a sproposito di troppi. Nel caso di Steve Jobs tocca fare uno sforzo e appellarsi per l'ennesima volta alla formuletta in questione: il co-fondatore di casa Apple se n'è andato il 5 ottobre del 2011, esattamente un anno fa, e da allora è più che mai presente in mezzo a noi in molteplici incarnazioni.

È il citatissimo filosofo del «siate affamati, siate folli», il sublime generale che prima di esalare l'ultimo respiro consegna ai suoi colonnelli il piano che porterà alla disfatta definitiva del nemico (la causa contro Samsung), l'icona abile e arruolabile per le cause più disparate.


«Non siamo stati alla tua altezza» 

Proprio in questi giorni negli Stati Uniti si fa per esempio leva sulle ragioni della sua prematura scomparsa - una rarissima forma di cancro al pancreas chiamata Pnet - per puntare il dito contro gli ancora insufficienti investimenti in ricerca. Ci pensa Siddhartha Mukerjee, oncologo ed ematologo di origini indiane premio Pulitzer nel 2011, in un articolo per il «Newsweek» evocativamente intitolato: «Mi spiace, Steve: avremmo potuto salvarti». Si parte dai dati: solo cinque persone su un milione soffrono della stessa patologia di Jobs. Parlando di cancro in senso generico, negli Usa un maschio su due e una donna su tre sono destinati a svilupparlo e una persona su quattro ne morirà. Proprio la grande varietà di tumori e malattie ematologiche rende complessi gli studi e dispendiosa la ricerca. In questi anni sono stati compiuti notevoli passi avanti sul piano della comprensione dei meccanismi del male, tuttavia siamo ancora lontani dallo sviluppare farmaci efficaci per tutte le forme tumorali.
No ai tagli alla ricerca Il mancato scatto in avanti su questo versante è anche un problema di risorse: il budget annuale del National Cancer Institute, spiega Mukerjee, ammonta a 5 miliardi di dollari l'anno contro i 12 miliardi mensili che gli States spendevano nel 2008 per supportare le azioni militari in Medio Oriente. Queste argomentazioni, scrive lo studioso, sono «esattamente il motivo per cui, quando i Congresso sceglie di tagliare il bilancio dell'Nci, noi dovremmo prendere quella decisione con la massima serietà. Se non creiamo sufficiente appoggio politico per la ricerca sul cancro, non faremo nascere quei farmaci che dovranno curare i nostri stessi tumori in futuro, inclusa la forma che ha ucciso Jobs». L'articolo di Mukerjee si chiude con un ricordo personale del 5 ottobre di un anno fa: lo studioso passò davanti all'Apple Store di Soho, dove migliaia di newyorchesi scrivevano pensieri di commiato per il numero uno di Cupertino. «Mi sono sentito – scrive il medico – come se avessi dovuto aggiungere il mio: mi dispiace Steve, avrei voluto che facessimo meglio».



L'apoteosi dello «Stay foolish» pensiero 
Quella di Jobs rimane una presenza ingombrante nel dibattito sulle nuove tecnologie nel tempo della Grande Crisi. E non solo: basti pensare che negli States c'è chi consiglia a un Mitt Romney un po' confuso di ispirarsi al ceo di Cupertino nella campagna elettorale per la corsa alla Casa Bianca. Quella singolare sintesi di ambizione e visionarietà che stava dietro allo «Stay hungry, stay foolish», secondo gli alfieri del sogno americano 2.0, può infatti rivelarsi parecchio utile in diversi campi. Non si contano, nei discorsi di politici e capitani d'industria, le citazioni della biografia ufficiale di Jobs firmata da Walter Isaacson, libro più venduto del 2011, secondo Amazon, negli Usa come qui da noi. Il co-fondatore di Apple è diventato una specie di filosofo socratico: ci è arrivato per quello che ha fatto e detto in vita, non per quanto ha scritto. Un filosofo pop, le cui frasi memorabili sono finite stampate sulle t-shirt alla stregua di quelle delle rockstar. Un santo laico. Non per forza laico: chiedete alla setta di buddisti thailandesi per cui il profeta della Mela si sarebbe già reincarnato in un loro adepto californiano un po' hippie. Cosa non si farebbe per un po' di pubblicità.